„Molizaiko“ – “Nemojte zabit naš lipi jezik“ IT

„Molizaiko“ – “Nemojte zabit naš lipi jezik“

 

„Non è forse una meraviglia che lontani per quattro secoli circa dalla madre patria, noi conserviamo ancora la nostra lingua, le nostre usanze? “

Così scriveva il professore Giovanni De Robertis, presumibilmente  emozionato ed entusiasta, in una delle sue lettere, conservate oggi nelle varie biblioteche.

Sono passati più di centocinquanta anni da quando è scritta e anche noi, che abbiamo risposto all’invito dell’associazione “Mosaico italo-croato” per partecipare al quinto incontro dei croati in Molise, abbiamo provato tanta emozione e entusiasmo.

Torniamo per un attimo indietro nel tempo

Era la metà del diciottesimo secolo. In una mattina d’inverno, Medo Pucic, scrittore nato a Dubrovnik e italianizzato in Orsatto Pozza, entra in una sartoria di Napoli e sente il proprietario del negozio parlare con alcuni clienti utilizzando una lingua a lui ben nota; il caso volle si trattasse proprio della sua “lontana” lingua materna.

Ebbe la curiosità di comprenderne la provenienza, la migrazione e la misteriosa evoluzione

Venne a sapere che il gruppo di clienti giungeva da un paesino molisano: Acquaviva Collecroce.

Si tratta (ancora oggi) di un piccolo comune, nascosto da numerose colline e raggiungibile all’epoca solo a dorso d’asino o percorrendo a piedi, per ore e ore, strade disastrate e poco praticabili.

Tra le molteplici difficoltà, non mancava il rischio di subire atti di brigantaggio, un fenomeno allora molto frequente.

Non scoraggiatosi, decise di mettersi in contatto con il professore Giovanni De Robertis, appassionato linguista con la residenza proprio tra quello colline.

Fu così che il mondo dei “croati molisani”, fino ad allora nascosto, venne scoperto anche da studiosi.

La leggenda narra che le prime colonie, giunsero in terra molisana un venerdì del mese di maggio; ma non sapendo con esattezza quale, la festa “Maja” cade ogni venerdì del mese. Venerano santa

La loro lingua si è tramandata, di generazione in generazione, solo in forma orale;

“Ja pisem kako goverem” (io scrivo come parlo), a tale proposito, ripeterà spesso il professore De Robertis. Vi furono, e ci sono tutt’oggi, dei tentativi di tradurre questa lingua nella forma scritta. Ne è esempio icastico la traduzione de “Il Piccolo principe” avvenuta “na našo”.

Oggigiorno per poter sentire e assaporare questa lingua, per ammirarne la ricchezza e l’interessante tradizione, guardando al “mondo” dei croati molisani, occorre innanzitutto conoscere i luoghi e le persone, i cui numeri sono sempre meno, che abitano quella terra.

Per esempio, la parola “Molizaiko”, creata con un gioco di parole, sottende la volontà di far incontrare, una volta l’anno, i croati molisani con i croati della madre patria e altri sparsi per il mondo. Il termine è utilizzato come nome del suddetto evento, un appuntamento ormai fisso d’ogni primo sabato d’ottobre per far, inoltre, conoscere la lingua e le usanze dei croati molisani.

All’evento partecipano attivamente tutti i comuni dei croati molisani, in particolar modo sono convolte l’associazione culturale “Mosaico italo-croato” di Roma e “Jedna Muzika” del Molise che fanno da ponte tra i due mondi.

Le associazioni culturali instancabilmente si adoperano nell’ impegno di salvaguardare la lingua e l’identità dei croati molisani.

Quest’anno è stata la quinta edizione del “Molizaiko” e ormai si può parlare di vera e propria tradizione.

Per le difficoltà legate alla pandemia, l’anno scorso, che era anche la ricorrenza dei cinquecento anni dall’arrivo dei croati molisani, purtroppo non si è potuto organizzare nulla; però, con nostra grande gioia, quest’anno le cose sono andate diversamente. Sicuramente in meglio, verrebbe da dire.

I membri dell’associazione “Mosaico italo-croato” di Roma hanno partecipato insieme alle loro famiglie italiane e i bambini italo-croati hanno potuto approfondire anche in questa maniera la storia, la cultura e la tradizione croata.

Grazie alla determinazione e la costanza di queste associazioni culturali, i primi sabato e domenica di questo mese, in piacevole compagnia, siamo riusciti a visitare i comuni abitati dai croati molisani; il tutto condito da un ricco e vario programma culturale, cui non mancava certo la tradizione gastronomica.

Il Sabato era soleggiato.

Un gruppo abbastanza grande di croati, arrivati da diverse parti d’Italia o direttamente dalla patria, si è incontrato a Tavenna, in uno dei quattro comuni dei croati molisani. La piazza del paese si è trasformata in un allegro mormorio di accenti, mescolando il croato antico con il moderno, per poi usare intramezzato l’italiano.

Rinforzati dalle specialità gastronomiche e dalle tradizioni molisana e croata, si è potuto seguire il programma precitato, passando da allegri e vivaci canti, a balli di gruppi folcloristici, formati maggiormente dai ragazzi giovani; in conclusione ci siamo recati ad una mostra con magnifiche fotografie e ad una dimostrazione della lavorazione al Tombolo, tipica “specialità” artigianale del merletto di Tavenna.

Quindi, nascosti come gioielli e poggiati su colline verdi, si ergono gli ultimi quattro comuni, dove ancora risiedono i croati molisani: Tavenna, Acquaviva Collecroce, San Felice del Molise e Montemitro..

Tutti in provincia di Campobasso e ubicati nell’entroterra, tra i fiumi Trigno e Biferno, non lontano dal mare Adriatico.

Al loro interno si possono trovare nomi di vie e di istituzioni in doppia lingua, si può salutare con “dobro jutro” e “dobar dan” … e conoscere qualche persona che ancora parla la lingua “po našu”.

Nei volti di queste persone si intravedono tracce del passato come lascito dei primi arrivati che popolarono una terra deserta, dove precedentemente vi erano paesi distrutti, prima dal terremoto del 1456, e dopo debellati dalla peste. E’ sufficiente questa introduzione per comprendere le difficoltà che incontrarono i primi migranti appena arrivati “dall’altro lato del mare” (come loro stessi dicono).

Un inizio, quindi, segnato da difficili condizioni di vita e costante lotta per sopravvivere.

Le loro esistenza è stata sostenuta dai venti delle epoche e messa in crisi dalle varie vicissitudini politiche ed economiche che spesso li mettevano a dura prova. Ma tennero sempre una certa “indipendenza”, finché, nel ventesimo secolo, quando erano già profondamente radicati nella terra molisana, vennero esposti al c.d. “naufragio epocale”, riuscendo però a conservare tutte le loro tradizioni.

Il secondo e il terzo decennio del ventesimo secolo, l’Italia viene improntata su una radicale corrente politica, che porta con sé “il divieto allo studio” della loro lingua materna.

Dopa la seconda guerra mondiale, diventano una delle realtà economicamente non sviluppate dell’Italia; (ancora oggi, forse, rimane un passo indietro nello sviluppo economico rispetto al resto del paese).

Il dopoguerra e gli anni sessanta furono segnati da una forte emigrazione verso altri paesi, talvolta addirittura altri continenti.

Partivano con la stessa speranza dei loro avi, di poter tornare un giorno.

In pochi, anzi solo alcuni, dopo tanti anni, sono riusciti a tornare. I loro figli hanno altrove una seconda, o magari terza, patria, che non è né da questa né dall’altra sponda del mare Adriatico.

I cinque secoli trascorsi dalla partenza dalla madrepatria e l’amore e riconoscenza verso la loro attuale, la terra molisana, Mario Giorgetti riesce esprimere con i versi composti in una poesia:

CINQUECENTO

Eccoci, siamo ancora qua

a parlare questa antica lingua,

come oro custodita

e ancora vive.

Cinquecento, cinquecento anni,

tanti sono passati

da quando qui sono venuti

quelli…poveri…stranieri

Cinquecento anni in questa terra

con la loro Santa Lucia,

li ha guidati per mano

e non si sono smarriti

Cinquecento anni e adesso

Questa terra possiamo ringraziare

Se suoi siam potuti diventare

tra le case di questo paese

Questo paese, che ancora tempo vuole avere

per gridare, un domani, al mondo,

che sono ancora quassù

quelli arrivati di là dal mare

 

 

Ma torniamo al nostro viaggio:

E’ domenica, le verdi e soleggianti colline molisane, emanavano un profumo fresco, che si mescolava con la brezza del mare. Ci aspetta Antonella, una croata molisana e una delle principali organizzatrici. Lei è la nostra guida. I suoi occhi, azzurri come sa essere azzurro il mare Adriatico, brillano di entusiasmo e di energia.

Dopo la prima visita, siamo pronti per recarci nei tre comuni mancanti. Saliamo lungo le strade tortuose e dissestate; “in primis” si va ad Acquaviva Collecroce, un nome che richiama la ricchezza d’acqua e che dista una ventina di chilometri dal mare.

Per arrivarci abbiamo percorso vie strette e ripide che sono avvolte da un’atmosfera medievale, tracciate dalle cavalleresche imprese e da opere dei Cavalieri di Malta, fra cui la Santa Maria Ester.

Si tratta dell’unica chiesa del paese, alla cui costruzione, secondo alcune fonti, parteciparono i croati molisani “ex-voto” che combatterono la battaglia di Lepanto.

Nella piazza principale, sulla facciata anteriore del palazzo municipale c’è una targa bianca in cui vi è scolpita la figura di Nicola Neri. La piazza porta il suo nome. È rappresentato in posizione eretta e con l’abbigliamento tipico della sua epoca mentre sostiene con le mani un cartiglio sul quale sono incise le seguenti parole: ”Nemojte zabit naš lipi jezik“ (Non dimenticate la nostra bella lingua).

Nocola Neri era un medico e uno scrittore nato qui. La targa commemorativa è datata nel 1999, realizzata per il duecentesimo anniversario dalla sua morte. Prima di essere impiccato, come  giacobino della Rebubblica parteponea, ha mandato questo messaggio ai suoi concittadini.

Dopo tutto ciò, riscendiamo dalle colline, passando tra macchie di ginestra e piccoli ulivetti neri. Impegnamo più tempo del previsto per i dossi lungo le strade. Arriviamo a San Felice, un borgo che sembra davvero “contento“ ma allo stesso tempo addormentato. Le origini di uno degli attori hooliwodiani più belli (Gregory Peck) sono proprio di qui.

Riprendiamo a scendere per poi risalire fino a Montemitro; da programma è l’ultimo comune da visitare. Dopo un abbondante pranzo ad opera delle donne del posto descritte in altra epoca da professore De Robertis, quando in una delle sue lettere dipinge le sue concittadine come belle, curate nel vestirisi e dilligenti. I pasti, è vero sono un bisogno fisiologico, ma anche un’ocasione per conversare e stare insieme.

A Montemitro si conversa “na našo“. Ascoltiamo questa lingua e riconosciamo alcune antiche parole, un eco lontano di alcune espressioni dei nostri nonni. Si tratta solo di frammenti, parole che noi non usiamo più, però che riescono a far tornare alla mente un’immagine, un suono o un ricordo di quando eravamo piccoli, perchè “na našo“ è una lingua legata all’infanzia e al gioco.

Ci salutiamo prendendo un caffè e con uno scenario diverntente: i padroni di casa si prendono in giro.

Veniamo così a sapere che gli abitanti di Acquaviva Collecroce dicono che a San Felice si allungano quando parlano, mentre quelli di Montemitro, con disinvoltura,  affermano di essere i più “evoluti“.

È pronta la risposta che a Montemitro non sapevano scrivere perchè dicono scrivit invece che pisat (scrivere) e non avevano nemenno il gallo perchè usavano la parola italiana , appunto il gallo.

 

Ne moite zabit naš lipi jezik !

Autore: Ljiljana Džalto